venerdì 20 novembre 2015

Vincent Van Gogh


(Riassunto da Wikipedia, l'enciclopedia libera.)

Vincent Willem van Gogh (Zundert, 30 marzo 1853 – Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890) è stato un pittore olandese.


Autoritratto, 1889, Musée d'Orsay, Parigi

Tanto geniale quanto incompreso in vita, van Gogh influenzò profondamente l'arte del XX secolo. Dopo aver trascorso molti anni soffrendo di frequenti disturbi mentali, morì all'età di 37 anni per una ferita da arma da fuoco, molto probabilmente auto-inflitta.
In quell'epoca i suoi lavori non erano molto conosciuti né tantomeno apprezzati.

Van Gogh iniziò a disegnare da bambino, nonostante le continue pressioni del padre, pastore protestante che continuò ad impartirgli delle norme severe. 
Iniziò a dipingere tardi, all'età di ventisette anni, realizzando molte delle sue opere più note nel corso degli ultimi due anni di vita. I suoi soggetti consistevano in autoritratti, paesaggi, nature morte di fiori, dipinti con cipressi, rappresentazione di campi di grano e girasoli. 
Van Gogh in età adulta lavorò per una ditta di mercanti d'arte, viaggiò tra L'Aia, Londra e Parigi. Per breve tempo si dedicò anche all'insegnamento; una delle sue aspirazioni iniziali fu quella di diventare un pastore e dal 1879 lavorò come missionario in una regione mineraria del Belgio, dove ritrasse persone della comunità locale. 
Nel 1885, dipinse la sua prima grande opera: I mangiatori di patate. La sua tavolozza, al momento costituita principalmente da cupi toni della terra, non mostra ancora alcun segno della colorazione viva che contraddistinguerà le sue successive opere. Nel marzo del 1886, si trasferì a Parigi dove scoprì gli impressionisti francesi. 
Più tardi, spostatosi nella Francia del sud, i suoi lavori furono influenzati dalla forte luce del sole che vi trovò.

Le lettere
La più completa fonte primaria per la comprensione di van Gogh come artista è la raccolta di lettere tra lui e suo fratello minore, il mercante d'arte Théo van Gogh. Théo fornì a Vincent sostegno finanziario e emotivo per gran parte della sua vita. La maggior parte di ciò che ci è noto sul pensiero di van Gogh e sulle sue teorie d'arte, è scritto nelle centinaia di lettere che i due fratelli si scambiarono.

Biografia

Gli studi interrotti (1868)
Nel 1868, a causa dello scarso rendimento nonché di problemi economici del padre, Vincent abbandonò gli studi; lo zio paterno lo raccomandò alla casa d'arte Goupil & Co. L'attività della casa Goupil consisteva nella vendita di riproduzioni d'opere d'arte. 
Il giovane Vincent sembrò molto interessato al suo lavoro, che lo obbligava a un approfondimento delle tematiche artistiche, lo stimolava a leggere e a frequentare musei e collezioni d'arte. 
Nel 1873 fu trasferito nella filiale Goupil di Londra. 
Nella pensione in cui alloggiava, si dichiarò un giorno a una figlia della proprietaria che, già fidanzata, lo respinse. Caduto in una crisi depressiva, chiese e ottenne di essere trasferito a L'Aia. Da questo momento iniziò a trascurare il lavoro: i suoi interessi cominciarono a indirizzarsi verso le tematiche religiose e la predicazione.
I dirigenti della Goupil erano sempre più scontenti di lui e Vincent, capendo di non poter continuare la sua collaborazione in quell'attività si dimise nel 1876.

La missione sociale e religiosa (1876-1880)
Tornato in famiglia, fu dissuaso dai genitori, spaventati dalle sue precarie condizioni psicofisiche, dal ripartire per l'Inghilterra.
Autorizzato, nel gennaio del 1879, a predicare temporaneamente dalla Scuola di Evangelizzazione di Bruxelles, si trasferì nel centro minerario di Wasmes, vivendo in una baracca: qui, povero tra i poveri, si prese cura dei malati e predicò la Bibbia ai minatori. 

Il suo zelo e la sua partecipazione emotiva all'estrema povertà dei minatori apparvero eccessivi alla Scuola, che decise di non rinnovargli l'incarico.
Vincent continuò a svolgere quella che considerava una missione, arrivando interrompere per qualche tempo la corrispondenza con il fratello Théo, che disapprovava apertamente le sue azioni e cercava di distoglierlo da un'attività che sembrava aggravare il suo delicato equilibrio psichico.
Nel luglio del 1880 riprese la corrispondenza con Theo, che gli mandò del denaro e lo incoraggiò a indirizzare le sue generose pulsioni sociali e religiose verso l'espressione artistica. Vincent accolse il suggerimento e nell'ottobre si stabilì a Bruxelles dove, capendo di dover frequentare una scuola di tecnica pittorica, si iscrisse all'Accademia di Belle Arti. Studiò prospettiva e anatomia, impegnandosi in disegni che ritraevano soprattutto umili lavoratori della terra e delle miniere. 

A Nuenen (1883-1885)
Nel gennaio del 1882 Vincent conobbe Sien, una prostituta trentenne, alcolizzata e butterata dal vaiolo, madre di una bambina e in attesa di un altro figlio, che gli fece da modella. Dopo il parto vissero insieme ed egli pensò anche di sposarla, sperando di sottrarla alla sua triste condizione. 
Decise di lasciare Sien dopo un anno anche per la pressione della famiglia che, appresa la volontà di Vincent di voler sposare una prostituta, tentò addirittura di farlo internare. 

Alla fine del 1883 tornò a vivere con i genitori che si erano trasferiti a Nuenen. Il padre era intenzionato ad aiutare Vincent, ponendo fine alla sua vita errabonda, ma nemmeno in quel luogo Vincent riuscì a trovare un po’ di tranquillità; il 26 marzo 1885 il padre morì improvvisamente d'infarto dopo un violento alterco con lui.


I mangiatori di patate, olio su tela, 82x114 cm, 1885, Van Gogh Museum, Amsterdam


Nell'aprile del 1885 dipinse le due versioni de I mangiatori di patate, dei quali scrisse a Théo:
«Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole»

Vincent difese apertamente la sua opera, nonostante fosse consapevole dei suoi difetti:


«Non mi lascerò incantare facilmente, come si crede, nonostante tutti i miei errori. So perfettamente quale scopo perseguo; e sono fermamente convinto di essere, nonostante tutto, sulla buona strada, quando voglio dipingere ciò che sento e sento ciò che dipingo, per preoccuparmi di quello che gli altri dicono di me. Tuttavia, a volte questo mi avvelena la vita, e credo che molto probabilmente più d'uno rimpiangerà un giorno quello che ha detto di me e di avermi ricoperto di ostilità e di indifferenza. Io paro i colpi isolandomi, al punto che non vedo letteralmente più nessuno»

Anversa e Parigi (1886-1887)
In seguito, comprendendo di non poter rimanere in un paesino come Nuenen, nel novembre del 1885 si trasferì ad Anversa, frequentando assiduamente le chiese e i musei della città dove scoprì le stampe giapponesi.
Van Gogh acquistò le sue prime stampe ad Anversa e trasmise il suo interesse per quell'arte lontana al fratello Theo. Insieme raccolsero più di 400 opere che ora si trovano al Museo Van Gogh di Amsterdam.
Nel 1886 si trasferì a Parigi per migliorare la sua tecnica e vi conobbe pittori che in seguito sarebbero diventati importanti, tra i quali Toulouse-Lautrec.
La capitale francese era il centro della cultura mondiale: 


«non c'è che Parigi: per quanto difficile possa essere qui la vita, e anche se divenisse peggiore e più dura, l'aria francese libera il cervello e fa bene, un mondo di bene». 
Il fratello vi si era trasferito da sette anni per dirigere, a Montmartre, una piccola galleria d'arte. Theo lo ospitò nella sua casa, presentandogli i maggiori pittori impressionisti. Inizialmente non era interessato alla loro pittura:


«Quando si vedono per la prima volta si rimane delusi: le loro opere sono brutte, disordinate, mal dipinte e mal disegnate, sono povere di colore e addirittura spregevoli. Questa è la mia prima impressione quando sono venuto a Parigi»
D'altronde sapeva che l'abilità tecnica non doveva essere il fine dell'arte, ma solo il mezzo per esprimere il proprio sentire: 
«quando non posso farlo in modo soddisfacente, mi sforzo di correggermi. Ma se il mio linguaggio non piace, ciò mi lascia completamente indifferente».
Un'osservazione più puntuale delle opere degli impressionisti gli fece comprendere l'originalità e i valori racchiusi in quella nuova forma d’arte. Non aderì mai a questa scuola, perché intendeva sempre esprimere solo ciò che aveva «dentro la mente e il cuore», tuttavia grazie all'influsso della pittura impressionista tralasciò i temi sociali per i paesaggi e le nature morte e abbandonò i toni scuri e terrosi della sua pittura precedente. Sperimentò anche l'accostamento dei colori complementari e si cimentò con la tecnica puntinista inventata da Seurat.


Agostina Segatori (L'Italiana), olio su tela, 1887, Amsterdam


Fu in questo periodo che conobbe Gauguin, frequentando un locale gestito dall'ex-modella di Degas, l'italiana Agostina Segatori, con la quale, per qualche mese, ebbe una relazione.
I rapporti con Théo non furono sempre idilliaci, perché l'amore fraterno spesso veniva sopraffatto dai loro disturbi psichiatrici. Il carattere generoso ma imprevedibile e collerico di Vincent non gli rendeva agevole mantenere rapporti durevoli di amicizia. Lui stesso si rendeva conto di non riuscire a manifestare le proprie opinioni senza scatti violenti.
Il desiderio di conoscere il Mezzogiorno francese, «dove c'è più colore, più sole», con la sua luce e i suoi colori mediterranei così lontani dal cromatismo nordico, fu una buona occasione per porre fine a una convivenza divenuta difficile.

Arles (1888)

La casa gialla, olio su tela, 76x94 cm, 1888, Van Gogh Museum, Amsterdam

Trasferitosi ad Arles il 20 febbraio 1888, abitò prima in albergo e poi, in maggio, affittò un appartamento di quattro stanze di una casa dalle mura gialle che si affacciava su piazza Lamartine, ritratta in un quadro famoso.
Produsse una tela dopo l'altra, come se temesse che la sua ispirazione, esaltata dalle novità del mondo provenzale, potesse abbandonarlo. Si sentiva trascinato dall'emozione, che van Gogh identificava con la sincerità dei suoi sentimenti verso la natura. Le emozioni che provava di fronte alla natura provenzale erano così forti da costringerlo a lavorare senza sosta.

Del modello naturale confessava di non poter fare a meno. Non si sentiva in grado di inventare un soggetto, ma non aveva problemi a combinare diversamente i colori, accentuandone alcuni e semplificandone altri. 
Scrisse:


«Non seguo alcun sistema di pennellatura: picchio sulla tela a colpi irregolari che lascio tali e quali. Impasti, pezzi di tela lasciati qua e là, angoli totalmente incompiuti, ripensamenti, brutalità: insomma, il risultato è, sono portato a crederlo, piuttosto inquietante e irritante, per non fare la felicità delle persone con idee preconcette in fatto di tecnica [...] gli spazi, limitati da contorni espressi o no, ma in ogni caso sentiti, li riempio di toni ugualmente semplificati, nel senso che tutto ciò che sarà suolo parteciperà di un unico tono violaceo, tutto il cielo avrà una tonalità azzurra, le verzure saranno o dei verdi blu o dei verdi gialli, esagerando di proposito, in questo caso, le qualità gialle o blu »

Sperimentava tecniche diverse, risaltando le forme, circondandole di contorni scuri e pennellando lo sfondo a strati, ondulando i contorni per accentuare la struttura delle forme, punteggiando con brevi pennellate o spremendo il colore dal tubetto direttamente sulla tela. Altre volte si convinceva 
«di non disegnare più il quadro con il carboncino. Non serve a niente; se si vuole un buon disegno, si deve eseguire direttamente con il colore».
Andando incontro a un desiderio di Vincent, nell'estate del 1888 il fratello Théo contattò Gauguin, offrendosi di pagargli il soggiorno ad Arles e garantendogli l'acquisto di dodici suoi quadri all'anno per la cifra di 150 franchi. Gauguin, dopo qualche esitazione, accettò, pensando di mettere da parte quanto gli era necessario per realizzare il suo desiderio di trasferirsi, di lì a un anno, in Martinica.

Il dramma di Arles


La camera di Vincent ad Arles, olio su tela, 72x90cm, 1888, Van Gogh Museum, Amsterdam

Nell'attesa dell'arrivo di Gauguin, van Gogh si preoccupò di arredare con qualche altro mobile l'appartamento e ornò con propri quadri la camera da letto. Gli scrisse:


«Ho fatto, sempre come decorazione, un quadro della mia camera da letto, con i mobili in legno bianco, come sapete. Ebbene, mi ha molto divertito fare questo interno senza niente, di una semplicità alla Seurat; a tinte piatte, ma date grossolanamente senza sciogliere il colore; i muri lilla pallido; il pavimento di un rosso qua e là rotto e sfumato; le sedie e il letto giallo cromo; i guanciali e le lenzuola verde limone molto pallido; la coperta rosso sangue, il tavolo da toilette arancione; la catinella blu; la finestra verde.»

Gauguin giunse ad Arles il 29 ottobre 1888 e, al contrario di van Gogh, ne rimase deluso, definendola «il luogo più sporco del Mezzogiorno» e della Provenza. Il sogno di van Gogh di fondare un'associazione di pittori che perseguissero un'arte nuova lo lasciava scettico. In realtà Gauguin desiderava ardentemente trasferirsi ai tropici non appena ne avesse avuta la possibilità. Come se non bastasse era irritato dalle abitudini disordinate di Vincent, dalla sua scarsa oculatezza nell'amministrare il denaro che avevano messo in comune.
Van Gogh invece manifestava un'aperta ammirazione per Gauguin, che considerava un artista superiore. Riteneva che le proprie teorie artistiche fossero banali se confrontate con le sue. 


Paul Gauguin, Van Gogh che dipinge girasoli, 1888

Nei primi giorni del dicembre 1888 Gauguin ritrasse van Gogh, rappresentandolo nell'atto del dipingere girasoli. Vincent commentò: «Sono certamente io, ma io divenuto pazzo». Nelle sue memorie Gauguin scrive che quella sera stessa, al caffè, i due pittori bevvero molto e improvvisamente Vincent scagliò il suo bicchiere contro il viso di Gauguin che riuscì a evitarlo, con gran spavento. Dopo quell'episodio seguirono giorni di tensione. Fu così che Gauguin prese la decisione di partire da Arles.

L'episodio più grave accadde il pomeriggio del 23 dicembre: van Gogh - la ricostruzione del fatto è tuttavia controversa - avrebbe rincorso per strada Gauguin con un rasoio, rinunciando ad aggredirlo quando Gauguin si voltò per affrontarlo. Gauguin corse in albergo preparandosi a lasciare Arles, van Gogh invece, in preda ad allucinazioni, si tagliò metà dell'orecchio sinistro. La mattina seguente la polizia lo fece ricoverare in ospedale, da cui uscì il 7 gennaio 1889. 
In questo periodo van Gogh dipinse se stesso con l'orecchio bendato.
Autoritratto con orecchio bendato, 60x49 cm, 1889, Courtauld Institute Galleries, Londra

Alternava periodi di serenità, nei quali era in grado di valutare lucidamente e ironicamente tutto quello che gli era successo, a momenti di ricadute nella malattia: il 9 febbraio, dopo una crisi nella quale si era convinto che qualcuno volesse avvelenarlo, fu nuovamente ricoverato in ospedale. Dopo essere stato dimesso per pochi giorni, nel mese di marzo fu ricoverato nuovamente in seguito a una petizione firmata da ottanta cittadini di Arles.
Vincent scrisse al fratello, esprimendo la volontà di essere internato in una casa di cura:
«Se l'alcool è stato certamente una delle più grandi cause della mia follia, allora è venuta molto lentamente e se ne andrà molto lentamente, se se ne andrà [...] Infine, bisogna prendere una posizione di fronte alle malattie del nostro tempo [...] io non avrei precisamente scelto la follia, se c'era da scegliere, ma una volta che le cose stanno così, non vi si può sfuggire. Tuttavia esisterà forse ancora la possibilità di lavorare con la pittura. »
L'8 maggio 1889 Van Gogh entrò volontariamente nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence, a una ventina di chilometri da Arles.

A Saint-Rémy-de-Provence (1889)
La diagnosi del direttore della clinica, il dottor Peyron, fu di epilessia. Oggi si ritiene che van Gogh soffrisse di psicosi epilettica: egli subiva attacchi di panico e allucinazioni ai quali reagiva con atti di violenza e tentativi di suicidio, seguiti da uno stato di torpore. Nei lunghi intervalli della malattia era in grado di comportarsi in modo del tutto normale.

Nella clinica di Saint-Rémy non veniva praticata alcuna cura. Aveva a disposizione per lavorare un'altra camera vuota, poteva anche andare a dipingere fuori dal manicomio, accompagnato da un sorvegliante, e si manteneva in contatto epistolare con il fratello che gli spediva libri e giornali.
A giugno cominciò a dipingere cipressi: 
«il cipresso è bello come legno e come proporzioni, è come un obelisco egiziano. E il verde è di una qualità così particolare. È una macchia nera in un paesaggio assolato, ma è una delle note più interessanti, la più difficile a essere dipinta che io conosca» 
e spedì al fratello un gruppo di tele, che gli vennero lodate.


Notte stellata, olio su tela, 73x92 cm, 1889, Museum of Modern Art, New York

Nel 1890 Van Gogh partecipò a delle mostre, e un critico d’arte pubblicò un articolo lusinghiero su di lui. Tuttavia le sue condizioni di salute continuavano a peggiorare: in clinica ebbe una grave e lunghissima crisi, dalla quale sembrò non riuscire a riprendersi, tanto che fu lasciato a sé stesso, libero di fare quel che voleva finché, ingeriti i colori, gli fu impedito di dipingere. Solo alla fine di aprile riuscì a migliorare e manifestò allora il suo desiderio di lasciare la clinica, vista la mancanza di benefici per la sua salute. 

Nel maggio 1890 Vincent lasciò definitivamente Saint-Rémy per recarsi a Auvers-sur-Oise, un villaggio a 30 chilometri da Parigi dove risiedeva un medico amico di Théo, il dottor Gachet, che si sarebbe preso cura di lui.


Ritratto del dottor Gachet, olio su tela, 68×57 cm, 1890, Collezione privata

La morte ad Auvers-sur-Oise (1890)

Ma già in giugno, Van Gogh cominciò a temere una nuova crisi, e questa eventualità lo rese particolarmente nervoso. Le sue ultime tele sono paesaggi oppressi da cieli cupi e percorsi da neri voli di corvi.
«Mi sono rimesso al lavoro, anche se il pennello mi casca quasi di mano e, sapendo perfettamente ciò che volevo, ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la mia tristezza, l'estrema solitudine.»
Campo di grano con volo di corvi, olio su tela, 50,3x103 cm, 1890, van Gogh Museum, Amsterdam

La sera del 27 luglio 1890, una domenica, dopo essere uscito per dipingere i suoi quadri come al solito nelle campagne che circondavano il paese, rientrò sofferente nella locanda e si rifugiò subito nella sua camera: il padrone di casa, non vedendolo a pranzo, salì in camera sua, trovandolo disteso e sanguinante sul letto: a lui van Gogh confessò di essersi sparato un colpo di rivoltella al petto in un campo vicino.
Rifiutò di dare spiegazioni del suo gesto ai gendarmi e, con il fratello Théo che, avvertito, era accorso la mattina dopo, trascorse tutto il 28 luglio, fumando la pipa e chiacchierando seduto sul letto: gli confidò ancora che la sua «tristezza non avrà mai fine».
Morì quella notte stessa, verso l'1:30 del 29 luglio.

L'arte e le opere di Van Gogh


Autoritratto, 1889, National Gallery of Art

Autoritratti



Van Gogh, durante la sua vita, dipinse molti autoritratti: tra il 1886 e il 1889 rappresentò se stesso ben 37 volte. In tutte queste opere, lo sguardo del pittore è raramente diretto verso l'osservatore. Anche quando lo sguardo è fisso, sembra guardare altrove. 








Strada con cipresso e stella, 1890
Cipressi

Una delle serie più popolari e note dei dipinti di van Gogh sono i suoi cipressi. Queste opere sono caratterizzate da pennellate molto dense, la stessa tecnica che utilizzò per uno dei suoi più noti dipinti: la Notte stellata. Questi capolavori sono diventati sinonimo dell'arte di van Gogh attraverso la loro unicità stilistica.







Fiori

Van Gogh dipinse diverse versioni di paesaggi con fiori, come si vede in Paesaggio di Arles con Iris, e dipinti che raffigurano esclusivamente fiori. I principali soggetti rappresentati sono Iris, lillà, rose e i suoi famosi girasoli. 


Iris, 1889, Getty Center, Los Angeles

Queste opere riflettono i suoi interessi nel linguaggio del colore e della tecnica giapponese Ukiyo-e di cui si era appassionato.
L'artista ha completato due serie di dipinti di girasoli: la prima mentre si trovava a Parigi nel 1887 e la seconda, l'anno successivo, durante il suo soggiorno ad Arles. La prima serie mostra i fiori che vivono nel terreno. Nella seconda gli stessi sono raffigurati morenti nei vasi. I fiori di van Gogh sono dipinti con pennellate molto spesse e con pesanti strati di vernice.

Campi di grano e campi di ulivi

I passaggi intorno ad Arles, sono dei soggetti che van Gogh dipinse in molte occasioni. Egli realizzò, infatti, una serie di dipinti raffiguranti raccolti, campi di grano e uliveti.

Oliveto con nuvola bianca, olio su tela, 73x92 cm, 1889, Museum of Modern Art, New York

Successo postumo
Dopo le sue prime mostre avvenute alla fine del 1880, la fama di van Gogh è cresciuta costantemente tra i pittori, critici d'arte, commercianti e collezionisti. Dopo la sua morte, le sue opere ebbero un notevole impatto sulle generazioni successive di artisti.
A partire dalla metà del XX secolo, Van Gogh è stato considerato come uno dei pittori più grandi e riconoscibili della storia.
Insieme a quelle di Pablo Picasso, le opere di van Gogh sono tra dipinti più costosi al mondo, come è stato stimato da case d'aste e vendite private. 

sabato 3 ottobre 2015

Claude Monet


Monet fotografato da Etienne Carjat (1865 circa)
Claude Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 5 dicembre 1926) è stato un pittore francese, padre dell'Impressionismo.

Studi giovanili

Claude Monet nacque a Parigi nel 1840 ma ben presto i genitori si trasferirono a Le Havre, città portuale sulla Manica. Il suo talento artistico cominciò a manifestarsi durante l’adolescenza: a 15 anni, già riusciva a vendere caricature disegnate a matita e carboncino.
Dal 1856 Claude studiò disegno e il suo primo maestro, il pittore Eugène Boudin, lo indirizzò alla pittura del paesaggio “en plein air”, cioè all’aria aperta, dal vero, e lo incoraggiò a trasferirsi a Parigi. 
Monet vi si recò nel 1859 ma decise di frequentare una scuola poco costosa, l'Académie Suisse, dove mancavano veri e propri insegnanti. Qui ebbe modo di conoscere pittori importanti come Delacroix, esponente del Romanticismo, Courbet, appartenente alla corrente del Realismo e Pissarro, che fece parte dell’Impressionismo assieme a Monet.

Nel 1860 Monet venne chiamato a prestare il servizio militare, che sarebbe dovuto durare sette anni, a meno che, secondo la legislazione francese del tempo, non si trovasse un sostituto che intendesse svolgerlo al suo posto. Arruolato nel Reggimento dei Cacciatori d'Africa, di stanza ad Algeri, rimase affascinato dalla luce e dai colori di quei luoghi.
Ammalato, nel 1862 tornò in licenza di convalescenza nella sua casa di Le Havre e qui riprese a dipingere.
Intanto i suoi familiari riuscirono a farlo esonerare dal servizio militare trovando un giovane disposto per denaro a svolgerlo al suo posto. Fu così che Claude, consapevole di aver bisogno di migliorare i propri mezzi tecnici, poté tornare a Parigi per studiare in un atelier frequentato anche dai giovani Renoir, Alfred Sisley e Bazille
Nell'estate del 1864 si stabilì a Honfleur, una graziosa cittadina sull’estuario della Senna, dove, con altri pittori, dipinse paesaggi e marine.

Il primo capolavoro incompreso: Donne in giardino, 1866


Donne in giardino, 1866 ca., olio su tela, cm 255x205, Parigi, museo d'Orsay


Al contrario di quanto facevano i pittori dell’epoca, che imparavano a dipingere copiando i grandi capolavori del passato, Monet non amava e non s'interessava ai classici esempi della pittura, tanto da non entrare quasi mai al Louvre: la sua cultura artistica era e rimase limitata, ma egli compensava quell'apparente difetto con il vantaggio di poter guardare alla natura - l'unica fonte della sua ispirazione – in modo istintivo e senza preconcetti.
Nel 1866 Claude Monet iniziò a dipingere dal vero, nel giardino dell'abitazione presa in affitto nella periferia parigina, Donne in giardino, un’opera nella quale egli tentò di realizzare la pittura en plein air in una tela di grande formato (il quadro misura all’incirca 2 metri di larghezza per 2 metri e mezzo di altezza).
La compagna del pittore, Camille, posò in diversi atteggiamenti per le tre figure sulla sinistra, che quindi non si possono considerare dei veri e propri ritratti. Inoltre, per poter dipingere anche la parte alta del quadro senza cambiare il punto di vista, Monet fu costretto a scavare una buca in giardino e sistemarvi la tela, che poteva essere calata o sollevata con carrucole a seconda dell’esigenza.
L’opera, oggi considerata uno dei capolavori giovanili del pittore, venne rifiutata dalla giuria del Salon del 1867, a causa della mancanza di un soggetto preciso, e delle pennellate, ritenute grossolane e approssimative.

Primi esperimenti impressionisti: La Grenouillère

Tra il 1867 e il 1868 Monet cambiò casa diverse volte, oberato dai debiti; venne aiutato da Renoir e dal mercante Gaudibert, che gli comprò delle tele, gli commissionò il ritratto della moglie e gli procurò una casa presso Bougival, sulla Senna, dove andò ad abitare insieme con Renoir. Qui, in riva alla Senna, i due artisti dipinsero alcuni quadri dedicati a La Grenouillère - lo stagno delle rane, uno stabilimento balneare.
Queste opere, sono tra i primi esempi di pittura impressionista. Monet e Renoir li dipinsero per studiare gli effetti della riflessione della luce sull'acqua e discuterne in seguito i risultati.

L'incontro con un intelligente mercante e la passione per l’arte giapponese

Nel giugno 1870, sposata la compagna Camille, Monet si trasferì con la famiglia a Trouville, in Normandia; scoppiata la guerra con la Prussia, per evitare il richiamo alle armi, si recò a Londra, dove visitò i musei londinesi, interessandosi alle opere di Turner e Constable, i due maggiori artisti inglesi della corrente del Romanticismo, e conobbe l'importante mercante d'arte francese Paul Durand-Ruel, che aveva una galleria d'arte in New Bond street. 
Durand-Ruel fu una figura importantissima per i pittori impressionisti, tanto che, probabilmente, senza di lui il movimento impressionista non avrebbe mai preso piede; infatti, questo genere di pittura fu a lungo duramente criticato e rifiutato.
Per molto tempo, Durand-Ruel, con eccezionale intuito, fu l’unico mercante d’arte ad acquistare le opere degli impressionisti, arrivando persino ad indebitarsi con le banche. Il tempo gli diede ragione: dopo trent’anni dai sui primi acquisti di dipinti impressionisti, i pittori che lui aveva sostenuto iniziarono ad ottenere un successo che, ancora oggi non conosce crisi.

Camille Monet con un costume giapponese, 1876
Finita la guerra, Monet tornò in Francia passando per i Paesi Bassi, dove rimase affascinato dal paesaggio e dove acquistò molte stampe giapponesi di Suzuki Harunobu, Hokusai e Hiroshige.

L’Occidente conobbe l’arte giapponese soltanto dopo il 1854. Le stampe giapponesi giunsero in Olanda tramite la Compagnia delle Indie, come carta da imballaggio per le porcellane. La pittura giapponese rappresenta scene piatte, senza prospettiva, con colori stesi in modo uniforme, figure stilizzate e composizioni spesso asimmetriche. La particolarità delle immagini, caratterizzate da forme definite con linee sinuose, affascinò gli europei e, a partire dalla Francia, dilagò la moda di collezionare oggetti, tessuti, mobili e opere d’arte giapponesi. Il fenomeno diventò talmente esteso da essere definito “giapponismo”. 
Anche Monet, come molti altri artisti, fu travolto da questa passione e collezionò numerose stampe giapponesi. 
Con le loro inquadrature non convenzionali e la capacità di creare effetti di spazio attraverso le tonalità di colore anziché utilizzando la prospettiva, gli artisti giapponesi ebbero grande influenza su Monet e sugli altri pittori impressionisti. 

La nascita dell'Impressionismo

Nel 1871, Monet si stabilì ad Argenteuil, vicino Parigi, dove prese in affitto una casa con giardino davanti alla Senna; aveva infatti superato le proprie difficoltà economiche grazie anche all'eredità del padre, morto poco tempo prima.

Impressione. Levar del sole (Impression, soleil levant), 1872, Musée Marmottan

Il 15 aprile 1874 venne inaugurata, nello studio del fotografo Nadar, la mostra di un gruppo di artisti, composto, fra gli altri, da Monet, Cézanne, Degas, Morisot, Renoir, Pissarro e Sisley, polemici nei confronti della pittura, allora di successo, accettata regolarmente nei Salons. Monet vi presentò la tela, dipinta due anni prima, Impressione, levar del Sole; il critico Louis Leroy prese spunto dal titolo del quadro per coniare ironicamente il termine impressionismo.
Il 24 marzo 1875 il gruppo degli impressionisti organizzò una vendita collettiva di dipinti che, malgrado il basso prezzo dell'offerta, non ebbe successo; Monet si trovò nuovamente in difficoltà economiche. Anche una seconda mostra, tenuta l'anno seguente, dove Monet presentò 18 tele, si rivelò un fallimento. 

Nel 1877 Monet dipinse una serie di vedute, in ore e luci diverse e in differenti angolature, della stazione parigina di Saint-Lazare, moderna costruzione in ferro e vetro, uno dei maggiori simboli della modernità. 

La Gare Saint-Lazare (1877) Art Institute of Chicago


Qui, oltre a riferimenti al pittore Turner, scoperto a Londra, appare anche l'interesse di Monet per soggetti fumosi, nebbiosi, di consistenza incerta.

Il metodo di lavoro di Monet, nel riprodurre lo stesso soggetto in diverse ore della giornata, è stato descritto da Maupassant, che lo vide dipingere a Étretat:

"cinque o sei tele raffiguranti lo stesso motivo in diverse ore del giorno e con diversi effetti di luce. Egli le riprendeva e le riponeva a turno, secondo i mutamenti del cielo. L'artista, davanti al suo tema, restava in attesa del sole e delle ombre, fissando con poche pennellate il raggio che appariva o la nube che passava [...] Io l'ho visto cogliere così un barbaglio di luce su una roccia bianca e registrarlo con un fiotto di pennellate gialle che stranamente rendevano l'effetto improvviso e fuggevole di quel rapido e inafferrabile bagliore. Un'altra volta vide uno scroscio d'acqua sul mare e lo gettò rapidamente sulla tela: ed era proprio la pioggia che riuscì a dipingere".

Nel 1881 Monet si legò commercialmente al mercante Paul Durand-Ruel.

Le serie: i Covoni, i Pioppi, le Cattedrali

Proseguendo nel programma che si era dato dipingendo la stazione Saint-Lazare, Monet progettò una serie di tele con il medesimo soggetto ripreso in diverse stagioni e in ore diverse del giorno.

Iniziò a dipingere, dal 1889 al 1891, la serie dei Covoni, scanditi nel mutare delle stagioni e delle ore; scrisse nell'ottobre del 1890: 


"Sgobbo molto, mi ostino su una serie di diversi effetti, ma in questo periodo il sole declina così rapidamente che non mi è possibile seguirlo [...] vedo che bisogna lavorare molto per riuscire a rendere quello che cerco: l'istantaneità, soprattutto l'involucro, la stessa luce diffusa ovunque, e più che mai le cose facili, venute di getto, mi disgustano".


Covoni (1889) Collezione privata
Esposti presso Durand-Ruel nel maggio 1891, la serie dei suoi Covoni ebbe successo e le tele vennero anche vendute da Monet direttamente ai collezionisti; la stessa cosa avvenne per la serie dei suoi Pioppi, che vennero presentati il 29 febbraio 1892 ancora presso la Casa Durand-Ruel.


La Cattedrale di Rouen in pieno sole (1894) Museo d'Orsay
Ormai ricco, Monet acquistò la casa di Giverny, dove già abitava in affitto, e la ristrutturò creando il famoso stagno dove iniziò a coltivare le ninfee. 
Nel 1892 iniziò a dipingere la serie delle Cattedrali di Rouen. 


Venti delle circa trenta* Cattedrali dipinte da Monet a Rouen negli inverni del 1892 e del 1893, e poi completate a Giverny, furono esposte in una mostra nel 1895; il pittore le riprese dal secondo piano di un negozio situato di fronte alla facciata occidentale, col consueto metodo di lavorare a ogni tela nel momento del cambiamento della luce del giorno.
(*alcune fonti riportano che le cattedrali dipinte da Monet siano 50)





Città di nebbia, città d’acqua: Londra e Venezia

Il Parlamento di Londra (1904) Museo d'Orsay
Nell’estate 1899, Monet si recò a Londra, e vi tornò ancora per tre anni: dal balcone della sua stanza al Savoy Hotel riprende vedute del panorama londinese e del Tamigi; nell'autunno, a Giverny, si dedicò a dipingere le ninfee del suo giardino.

Trentasette tele con vedute del Tamigi furono esposte nella Galleria Durand-Ruel nel 1904; Monet scrisse di amare la Londra invernale, in particolare la sua nebbia.


Canal Grande, 1908
Dal settembre al novembre 1908 fu a Venezia e vi tornò anche l’anno successivo: Venezia, la città sull’acqua, rappresentava per Monet “l'impressionismo in pietra”. In particolare, l’artista amava rappresentare i palazzi veneziani e il loro riflesso sulla laguna.





Le Ninfee

“Lavoro tutto il giorno a queste tele, me le passano una dopo l’altra. Nell’atmosfera riappare un colore che avevo scoperto ieri e abbozzato su una delle tele. Immediatamente il dipinto mi viene dato e cerco il più rapidamente possibile di fissare in modo definitivo la visione, ma di solito essa scompare rapidamente per lasciare al suo posto a un altro colore già registrato qualche giorno prima in un altro studio, che mi viene subito posto innanzi; e si continua così tutto il giorno”.

Nonostante i suoi viaggi, fu nel proprio giardino che Monet trovò la principale fonte di ispirazione degli ultimi anni, e in particolare nello stagno in cui coltivava le ninfee. Le prime tele ispirate al giardino non superavano il metro ma, man mano che l’interesse di Monet si intensificava, l’inquadratura si faceva sempre più incentrata sul particolare e le tele divenivano sempre più grandi.

Ninfee, 1903


Nel 1920 Monet offrì allo Stato francese dodici grandi tele di Ninfee, lunga ciascuna circa quattro metri, che furono sistemate nel 1927 in due sale ovali dell'Orangerie delle Tuileries. 


"Non dormo più per colpa loro" - scrisse nel 1925 - "di notte sono continuamente ossessionato da ciò che sto cercando di realizzare. Mi alzo la mattina rotto di fatica [...] dipingere è così difficile e torturante. L'autunno scorso ho bruciato sei tele insieme con le foglie morte del giardino. Ce n'è abbastanza per disperarsi. Ma non vorrei morire prima di aver detto tutto quel che avevo da dire; o almeno aver tentato. E i miei giorni sono contati".

Le sue ultime opere sono molto vicine all’astrattismo, non solo per la scelta artistiche del pittore di restringere sempre di più l’inquadratura della scena, ma anche a causa della malattia agli occhi che gli impediva di riconoscere l'effettiva tonalità dei colori: scriveva lo stesso Monet: 


"I colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti di luce con la stessa precisione. Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo più a captare i toni intermedi o quelli più profondi [...] Cominciai pian piano a mettermi alla prova con innumerevoli schizzi che mi portarono alla convinzione che lo studio della luce naturale non mi era più possibile ma d'altra parte mi rassicurarono dimostrandomi che, anche se minime variazioni di tonalità e delicate sfumature di colore non rientravano più nelle mie possibilità, ci vedevo ancora con la stessa chiarezza quando si trattava di colori vivaci, isolati all'interno di una massa di tonalità scure".

Nel giugno del 1926 gli venne diagnosticato un carcinoma del polmone; morì il 6 dicembre: ai funerali partecipò tutta la popolazione di Giverny.

Quello stesso anno aveva scritto di aver avuto 


"il solo merito di aver dipinto direttamente di fronte alla natura, cercando di rendere le mie impressioni davanti agli effetti più fuggevoli, e sono desolato di essere stato la causa del nome dato a un gruppo, la maggior parte del quale non aveva nulla di impressionista".
Monet fotografato nel suo studio; alle sue spalle uno dei quadri sulle Ninfee


domenica 26 aprile 2015

Il manifesto e le avanguardie artistiche del Novecento

ASTRATTISMO

LE AVANGUARDIE RUSSE
i in Russia, dal 1910, si sviluppano nuove correnti artistiche orientate verso l’Astrattismo; una delle più importanti è il SUPREMATISMO, che crea opere costituite solamente da forme geometriche, eliminando ogni riferimento alla realtà.

ARTE TRA PROPAGANDA E UTOPIA
Nel 1917, la Rivoluzione d’Ottobre favorisce lo sviluppo culturale e la collaborazione fra artisti e Stato; agli artisti vennero affidati spesso dei compiti di propaganda politica: disegnare costumi e allestire spettacoli per il popolo, addobbare la città, inventare slogan e progettare manifesti innovativi, capaci di avvicinare le masse alla rivoluzione. 
Questo periodo fu di breve durata: nel 1924, la dittatura pose fine a qualsiasi forma di arte libera, sostituendola con una vera e propria arte di regime.
El Lissitskij fu l’artista sovietico che meglio seppe trasmettere gli ideali della Rivoluzione attraverso l’arte. Il suo celebre manifesto politico, "Batti il bianco con il cuneo rosso!" allude alla situazione storica di quel periodo. 
Servendosi di un linguaggio astratto egli rappresenta i rivoluzionari (il triangolo rosso) che, uniti, riescono a spezzare l’assedio della controrivoluzione, sintetizzata da un semplice cerchio bianco.

El Lissitskij, Batti il bianco con il cuneo rosso! Manifesto, 1920, Mosca, Museo centrale della Rivoluzione


Un altro famoso manifesto dello stesso periodo è quello di Rodzenko, in cui l’arte astratta geometrica viene abbinata al collage. Il triangolo rosso amplifica e concretizza le parole, proiettandole oltre il rettangolo del manifesto.

A. Rodzenko  Manifesto di propaganda del libro (1924)

SURREALISMO

“Aidez l’Espagne” é un manifesto di propaganda repubblicana progettato da Juan Mirò durante l’allestimento del padiglione spagnolo all’Esposizione Internazionale di Parigi del ‘37, e almeno all’inizio doveva essere diffuso in numerose copie per finanziare la repubblica. 
A causa del ritardo con cui il padiglione fu allestito non fu possibile mandare in stampa il manifesto. 
La figura alza la mano stretta in un pugno tridimensionale, a rappresentare la forza bruta necessaria per vincere i nemici della libertà. 
I colori della figura sono quelli della bandiera catalana, ennesima dimostrazione del forte spirito nazionalista del pittore.

Joan Mirò (1893-1983) Fu un pittore catalano esponente del Surrealismo, una corrente artistica di avanguardia influenzata dagli studi di Freud sulla psicanalisi. Gli artisti che vi aderirono, cercavano di esprimere i contenuti dell’inconscio e di rappresentare i contenuti dei propri sogni, liberando l’immaginazione dal controllo della razionalità.
Joan Mirò, La fattoria, 1921/22, olio su tela

Mirò dipinse paesaggi irreali, a metà tra sogno e magia, popolati da bizzarre creature. I suoi soggetti, estremamente semplificati, sono a tratti riconducibili a forme di piante o animali, altre volte appaiono come forme astratte.
L’uso di forme prive di chiaroscuro, realizzate con colori molto accesi e disposte in uno spazio privo di profondità, danno l’idea di un disegno infantile, mentre, al contrario, sono frutto di lunghissime riflessioni e ricerche.

IL BAUHAUS, UNIONE TRA ARTE E INDUSTRIA

Il BAUHAUS (casa del costruire) non fu un movimento artistico tradizionale ma un a scuola innovativa, che influenzò moltissimi artisti ed architetti. 
Fondato nel 1919 in Germania dall’architetto Walter Gropius, era una via di mezzo tra una scuola d’arte e una bottega artigiana. 

Qui gli studenti e i professori vivevano, studiavano e lavoravano insieme con lo scopo di progettare e realizzare ogni tipo di oggetto di uso quotidiano: dalla lampada al tappeto, dalla sedia alla casa.
Il Bauhaus non ebbe vita facile: troppo moderno e innovativo, fu osteggiato dagli ambienti conservatori e dal partito Nazista, che ne ordinò la chiusura nel 1933.

Joost Schmidt,  Manifesto per l’Esposizione dei lavori del Bauhaus a Weimar (1923)

Giocato su semplici segni grafici di grande impatto visivo, pochi colori dominanti (arancione e nero) e perfetta integrazione tra testo e immagine, questo manifesto propone una soluzione grafica di straordinaria modernità. Le forme sono prevalentemente geometriche, i caratteri tipografici sono a stampatello e la composizione è asimmetrica. 

FUTURISMO

Giacomo Balla «Velocità di un’automobile» 1913

Il Futurismo, l’unico movimento italiano di avanguardia a livello europeo, nacque nel 1909 con la pubblicazione del Manifesto del Futurismo del poeta Marinetti su un giornale francese, “Le Figaro”.

Per i futuristi il tema centrale era il “dinamismo universale”, ovvero la velocità, la macchina, l’energia elettrica, le industrie, tutto ciò che rappresentava il progresso, il futuro, in un paese, l’Italia, ancora in ritardo nel processo di industrializzazione rispetto agli altri paesi europei.
Il Futurismo fu una corrente artistica che coinvolse tutte le arti: pittura, scultura, architettura, letteratura, poesia, teatro.

Nel campo della pubblicità l’artista più originale fu Fortunato Depero, pittore trentino che trasformava i personaggi dei suoi manifesti in strani burattini meccanici.
F. Depero, progetto di manifesto per “Campari”, 1928, collage di carta colorata, 50x35 cm

Abili combinazioni di immagini e parole, degne espressioni di uno dei maggiori esponenti del Futurismo che amava definire la pubblicità come "arte nuova del mondo moderno".

"Se la pioggia fosse di Bitter Campari" - Depero (1926-1927) Inchiostro di china e collage su carta.

giovedì 12 marzo 2015

Composizione modulare e pittura a tempera

Con due ore alla settimana per classe, gli insegnanti di Arte e immagine devono fare i salti mortali per portare avanti il programma. 

Personalmente do la stessa importanza alle attività di laboratorio e alle lezioni di teoria, e cerco di sfruttare al massimo il poco tempo a mia disposizione mettendo insieme diverse tematiche. 


In fin dei conti, anche nella vita di ogni giorno è così: le competenze non si usano una alla volta, quasi sempre è necessario utilizzarne diverse contemporaneamente per svolgere un compito.

Al primo anno delle medie, gli alunni non hanno alcuna esperienza di pittura. 

Alle scuole elementari, non capisco perché, gli insegnanti fanno fare sempre meno attività pratiche e io mi ritrovo ad avere la maggioranza degli allievi che ad 11 anni non hanno mai preso un pennello in mano in vita loro.


Hanno bisogno di partire dalle basi e di sentirsi rassicurati da consegne precise e attività strutturate. Per questo, ormai da anni, faccio fare loro un'attività che mette insieme la composizione modulare geometrica con la colorazione a tempera.


Inizialmente facciamo delle attività sul quaderno, fornisco ai ragazzi delle schede da copiare e poi li incoraggio ad inventare un modulo geometrico e ad inventare con esso una composizione. 
Quando hanno compreso il meccanismo, insegno loro a riportare il progetto sul foglio da disegno e colorarlo a tempera. 

In questa seconda fase ci spostiamo in laboratorio, spiego come si impugnano i pennelli, come si mescolano i colori, lascio loro sperimentare le quantità di colore da utilizzare, la consistenza che deve avere per essere steso nel modo giusto, l'abbinamento dei colori.


Imparano così a stendere campiture uniformi, a controllare il pennello, a stare entro i contorni.



Qualcuno si "lancia" nella sperimentazione delle sfumature.


Alla fine si pulisce bene sia il materiale personale, sia l'aula. Tenere in ordine ambienti e materiali, avere cura e rispetto per i beni comuni è forse la competenza più importante da imparare.

giovedì 26 febbraio 2015

MANIFESTI STORICI DI PROPAGANDA


Cos’è la PROPAGANDA?

La propaganda è un insieme di azioni che hanno la finalità di influire sull’opinione pubblica, in modo da favorire gli intenti di chi la mette in atto. 
Essa utilizza le stesse modalità della pubblicità commerciale, atte a convincere provocando emozioni intense, che possono essere negative (paura, disprezzo, repulsione) o positive (orgoglio, patriottismo, desiderio di essere benvoluti). 
La propaganda riesce a provocare tali sentimenti grazie agli slogan, ripetuti costantemente dalla radio, televisione, stampa, manifesti, ma utilizza anche forme di diffusione, quali la letteratura, il teatro, il cinema, le arti figurative. 
Le immagini sono molto importanti nella propaganda, perché esse vengono comprese in maniera più immediata rispetto ai testi, e vengono memorizzate più facilmente.

L’uso della propaganda si affermò particolarmente a partire dalla I° Guerra Mondiale ed ebbe immenso sviluppo nei decenni successivi, specie in quei Paesi, come la Germania, l’Italia o l’URSS, dove si instaurarono regimi autoritari a base demagogica. 
Manifesto di propaganda – Stati Uniti,  II° GM (1943)
La II° Guerra Mondiale diede luogo a un enorme sviluppo della propaganda (definita anche guerra psicologica), impiegata all’estero con lo scopo di minare in tutti i modi la resistenza dei nemici, e all’interno degli Stati belligeranti per sostenere l’immane sforzo morale, sociale, economico, cui erano sottoposti dalla guerra totalitaria. 

La propaganda utilizza tecniche comunicative che richiedono competenze professionali e l’accesso a mezzi di comunicazione di vario tipo, in particolare ai mass media.
Esse implicano un certo grado di manipolazione della realtà, che viene mostrata solo in parte, selezionando i contenuti che interessano a chi la utilizza.
I destinatari di questi messaggi vengono tenuti accuratamente all’oscuro delle informazioni non conformi ai contenuti propagandati. A tale scopo, nei Paesi governati da regimi totalitari, la propaganda è organizzata a livello statale, ed è istituito un apposito Ministero che se ne occupa.

I° Guerra Mondiale - Campagna di reclutamento inglese

Daddy, what did YOU do in the Great War?



Questo è uno dei più famosi manifesti diffusi durante i primi mesi della Grande Guerra dal comitato inglese di reclutamento. Il consiglio dei ministri, contrario alla leva obbligatoria, dovette puntare sull’arruolamento di volontari. Il fervore patriottico e la forza della propaganda condussero, solo nel primo mese del conflitto, al reclutamento di 500.000 volontari. Nel corso del successivo anno e mezzo, se ne aggiunsero altri 100.000, la maggior parte dei quali destinati a morire nel fango delle trincee.

La scena si svolge nel salotto di una casa inglese dei primi del Novecento.
Gli elementi che esplicitamente ricordano la guerra sono i soldatini con cui sta giocando il bambino, ma dopo aver letto lo slogan che dice: “Papà, cosa hai fatto tu nella Grande Guerra?”, si può capire che il libro aperto sulle gambe della bambina è un libro di storia che parla della I° Guerra Mondiale. 
La frase dello slogan è pronunciata dalla bambina che sta leggendo il libro in braccio al padre. Gli elementi usati per convincere l’uomo ad arruolarsi sono, prima di tutto, il rimorso e la vergogna che proverà per non aver partecipato e quindi per non potere raccontare ai figli ciò che ha fatto durante la guerra. 

Alfred Leete, "Britons, Lord Kitchener wants You", 1914



Questo manifesto deriva da un disegno di Alfred Leete, pubblicato nel 1914 sul settimanale inglese “London Opinion” e successivamente adottato dal Comitato Parlamentare di Reclutamento come manifesto di propaganda.

Per catturare l’attenzione è stata usata una prospettiva esasperata. 
Il braccio fortemente scorciato e il dito puntato danno l’impressione che il personaggio raffigurato si rivolga personalmente a chi guarda il manifesto, con un notevole impatto psicologico.
Lo slogan è abilmente costruito in maniera simile a un rebus, in cui il soggetto della frase è un’immagine anziché una parola.  

L’uomo rappresentato è infatti Horatio Kitchener (Lord Kitchener) il ministro della guerra inglese, quindi la frase andrebbe letta in questo modo: “Britons, Lord Kitchener wants you. Join your country’s army! God save the king” (Britannici, Lord Kitchener vuole voi. Unitevi all’esercito del vostro Paese. Dio salvi il re).


L’efficacia di questo manifesto fu tale da essere ripreso nel 1917 da James Montgomery Flagg, autore del celebre manifesto di chiamata alle armi dell'esercito americano raffigurante lo Zio Sam. Questo manifesto fu ristampato nuovamente durante la II Guerra Mondiale, diventando uno dei manifesti più diffusi nella storia della pubblicità.


PROPAGANDA DI REGIME
FASCISMO

Il Fascismo fu il primo regime totalitario ad utilizzare la propaganda come mezzo per creare consenso nella popolazione e mantenere il potere. 
Mussolini era stato giornalista e comprendeva bene l’importanza della stampa per orientare il pensiero della gente. La propaganda fascista venne diffusa inoltre manipolando la radio e il cinema, due mezzi di comunicazione di massa che all’epoca erano molto moderni e che precedentemente non erano mai stati usati a tale scopo.

Una delle caratteristiche dei regimi totalitari è il «culto del capo».
Le idee, i comandi, la volontà del dittatore Benito Mussolini non dovevano essere mai messe in discussione: per questo motivo la sua immagine venne elaborata dalla propaganda in modo da farne un simbolo di virilità, forza, durezza.

In questa immagine, il colore rosso dello sfondo (simbolo di forza) fa risaltare il volto del Duce, di un grigio metallico.
Le sopracciglia aggrottate e il mento sollevato gli danno un’aria di arrogante superiorità.

LE DONNE E IL FASCISMO

Durante il Fascismo, alle donne venne riservato in primo luogo il ruolo di riproduttrici: il regime propagandava le famiglie numerose, vietò i contraccettivi, le pratiche abortive e l’educazione sessuale. 
Il fascismo affermò una visione della donna come individuo subordinato all'uomo e destinato a servirlo, in qualità di moglie e di madre, ma anche sul posto di lavoro e in ogni ambito della società. 

Questo fine venne perseguito costantemente, oltre che attraverso la propaganda, limitando e svilendo l'istruzione femminile.
Questo ruolo di subordinazione rimase ben marcato, anche quando, durante la II° Guerra Mondiale, i fascisti furono costretti ad arruolare perfino le donne nel Servizio Ausiliario Femminile (SAF).

L’atteggiamento della figura femminile in questa immagine, china in avanti, quasi in preghiera di fronte alla bandiera e ai simboli fascisti, è ben diverso da quello fiero e sfrontato delle figure maschili rappresentate nello stesso periodo.

Durante il Fascismo l’educazione, l’indottrinamento dei bambini e la scuola divennero il mezzo privilegiato della propaganda, nonché un serbatoio di reclutamento.





NAZISMO

1941 – il piano quadriennale di Hitler

Questo manifesto di propaganda nazista del 1941 è una 
celebrazione e un ricordo del piano quadriennale varato da Hitler nel 1936 e affidato al ministro Hermann Goering. 

Il nuovo e ambizioso programma proposto da Hitler prevedeva un piano economico basato sul potenziamento dell’industria bellica e sul raggiungimento dell’autosufficienza in tutti gli altri settori.
Da un punto di vista grafico, l’immagine si basa su uno schema formato da linee diagonali che si intersecano, creando un effetto di dinamismo, ma anche, allo stesso tempo, di equilibrio visivo.


Le diagonali più evidenti sono quelle formate dagli aerei in volo e dai cannoni puntati, che danno una forte impressione di movimento in avanti: un’impressione che si sposa benissimo con l’intento del manifesto, che è quella di infondere in chi lo guarda un senso di esaltazione, di fiducia nel progresso e nella forza della propria nazione.

In senso opposto abbiamo le diagonali formate dai colori dello sfondo, (che non a caso sono gli stessi della bandiera tedesca) rafforzate dalle nuvole e dal fumo che esce dalle ciminiere delle fabbriche. 



Queste altre diagonali creano con le precedenti un equilibrio compositivo che dà all’immagine un senso generale di stabilità. Il testo che compare nel manifesto “Der Vierahresplan” è allo stesso tempo titolo e slogan.  
I caratteri usati sono quelli gotici e, assieme ai colori dell’immagine, suggeriscono un forte sentimento di nazionalismo e appartenenza alla Nazione tedesca.



«Bambini, cosa sapete del Fürer?»

La copertina di questo libro, obbligatorio nelle scuole elementari tedesche durante il Nazismo, mostra Hitler in atteggiamento affettuoso e sorridente accanto a dei bambini.
Anche per il Nazismo era importante indottrinare la popolazione fin dalla più tenera età.







«La carezza stalinista 
illumina il futuro dei nostri bambini» 
Manifesto di propaganda stalinista.

STALINISMO

Alla morte di Lenin, nel 1924, subentrò Stalin alla guida dell’Unione Sovietica.
Molto più del suo predecessore, egli comprese l’importanza della propaganda come mezzo per mantenere il potere e la utilizzò in maniera massiccia. 
La propaganda di regime fu mobilitata per celebrare i successi del regime e nasconderne i drammi. 
La collettivizzazione delle campagne attraverso i kolchoz, aziende agricole collettive, fu accompagnata da una martellante campagna propagandistica: un’invasione di manifesti che raffiguravano contadini gioiosi e festanti, che esortavano a entrare nei kolchoz.
A partire dal 1934, a pittori e a scrittori (definiti da Stalin «ingegneri di anime») fu imposto un canone estetico ben preciso, che ricevette il nome di realismo socialista. Romanzi, manifesti e quadri dovevano esprimere ottimismo e presentare l’URSS come il «Paese più felice del mondo»

PROPAGANDA ANTISEMITA (NAZISMO)
Ebrei e comunisti venivano indicati dai nazisti come la causa di tutti i mali della Germania.
I semi di questa propaganda razzista avrebbero più tardi generato la tragedia dell’Olocausto.

L'ebreo errante 
Questo manifesto è stato realizzato per pubblicizzare «L’ebreo errante» (in tedesco Der ewige Jude), un film di propaganda antisemitico della Germania nazista realizzato nel 1940, presentato come un documentario. 

Il titolo rimanda alla figura della mitologia cristiana medievale dell'ebreo errante, che rappresenta metaforicamente la diaspora del popolo ebraico. La scritta è resa con caratteri che imitano l’alfabeto ebraico. 

I colori prevalenti sul manifesto sono il giallo e il nero, un abbinamento dal valore fortemente simbolico, ancora oggi usato nella segnaletica che indica pericolo: il giallo e il nero sono infatti due colori che in natura si trovano su animali velenosi come le vespe e le api.

Il personaggio del manifesto, rappresentato come un vecchio dall’aspetto sgradevole, reca con sé due simboli eloquenti: delle monete in una mano (gli ebrei venivano rappresentati come un popolo avido di denaro) e sotto il braccio quella che veniva presentata come la sua vera terra d’origine: la Russia comunista, marchiata con il simbolo della falce e martello.

Copertina del libro per bambini DER GIFTPILZ, «Il fungo velenoso», pubblicato nel 1935 a Norimberga, in Germania.


Il fungo velenoso è forse l’esempio più significativo di pubblicazione per l’infanzia a scopo propagandistico. 
La sua carrellata di accuse agli ebrei è una vera e propria antologia dei pregiudizi e dei luoghi comuni più diffusi: dall’avidità alla sordida cupidigia, fino alla storica colpa di deicidio.

Per diffonderli, il libro usa ampiamente il potere evocativo delle immagini, molto più dirette rispetto alla parola scritta, specialmente nei confronti di destinatari bambini. 
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Per i miei alunni: postate un commento rispondendo ad una o più tra le seguenti domande:

- Quale tra le diverse immagini presenti nell'articolo vi ha colpito di più, e perché?

- Quali potrebbero essere i possibili collegamenti tra questo argomento e i temi proposti per l'esame di fine anno?

- Dopo aver letto l'articolo, vi è rimasta qualche curiosità? Ci sono dei passaggi poco chiari o che non avete capito?

- Pensate che la propaganda, come è presentata in questo articolo, sia usata anche oggi? Se si, in quali contesti, e con quali mezzi?